Tras el Cristal – In a Glass Cage
A cura di Alice Kundalini - She Spread Sorrow
Le domande “Quale è il tuo artista preferito” o il “tuo film preferito” sono tra quelle che mi angosciano di più. Anzitutto perché sono domande abbastanza sciocche e che non possono che avere una risposta superficiale. Ma anche perché sono abbastanza instabile, soprattutto nei miei gusti, e non sopporto di trovarmi in quella situazione in cui non so cosa rispondere e quindi comincio ad elencare delle cose che mi piacciono come mi vengono in mente, senza che abbia davvero un senso, pur di dire qualcosa e non passare per la solita che si sente meglio degli altri e quindi non si presta a questo genere di cose. Se per quanto riguarda la musica, il problema permane, anzi, si accresce con il tempo, con il cinema la cosa si è definitivamente risolta il giorno in cui ho visto per la prima volta Tras El Cristal. Non c’è dubbio, per quanto sciocca sia la domanda e la ricerca di una risposta, quel giorno mi sono proprio detta, questo è il mio film preferito.
Tras El Cristal, il cui titolo nella trasposizione inglese è In A Glass Cage, è un film del 1987 classificato come horror, di Augustin Villaronga. Secondo molti, e anche me, il suo miglior film. Il motivo per cui lo definisco il mio film preferito è perché è un film estremo, durissimo, disturbante e al contempo esteticamente meraviglioso e poetico. La storia è atroce. Klaus è un torturatore e assassino, con una predilezione per giovani ragazzi, se non bambini, con un passato da carnefice in un lager nazista e che rimane completamente paralizzato in seguito ad un tentativo di suicidio non andato a buon fine, rimanendo così costretto a vivere in un polmone d’acciaio, da cui emerge solo il capo.
Si presenterà il giovane Angelo per prendersi cura di lui, il quale seguendo un diario ritrovato e un ricordo di bambino, scoprirà anch’egli la morbosa attrazione verso la morte e la violenza. La tematica è a dir poco estrema. Non è sicuramente un film per tutti. Ci vuole uno stomaco forte, anzi fortissimo. Ti porta in contatto con il male profondo che si può trovare all’interno dell’animo umano. Ti costringe a fare i conti con la morale, l’etica, le pulsioni umane, i concetti di male e bene, di istinto alla vita e alla morte.
Soprattutto recentemente i film estremi, quelli che pensi “non ce la faccio, ora spengo” si sono moltiplicati. Ma l’estremo è principalmente visivo. Fatto di violenza. Effetti speciali. Spesso il tutto risulta abbastanza gratuito, fatto appositamente per scioccare e spingersi sempre oltre, ma senza un reale significato. Non è il caso di Tras El Cristal. Anzi, forse è esattamente il contrario. L’atmosfera del film è completamente diversa. Claustrofobica, con pochissimi esterni. Lenta. Rarefatta. Virata spesso ai colori del blu, a creare un atmosfera fredda, gelida, buia, mortuaria. La violenza non è quasi mai evidente. Sono rare le scene esplicite. La maggior parte delle cose è appena suggerita. E questo fa ancora più male, perché il non vedere ti obbliga ad immaginare. A portare la tua mente da un ruolo passivo di assimilazione e difesa verso le immagini forti tipiche di certi horror, ad un ruolo completamente attivo, in cui invece giochi di sguardi, dialoghi di poche parole, immagini buie che non mostrano quasi nulla, portano la tua stessa mente a creare quanto sta succedendo. Per questo è uno di quei film che non è per tutti. Risulta spesso insostenibile. Ti porta in contatto con un lato talmente oscuro a cui non si è preparati. È un film assolutamente scandaloso nel senso più letterale del termine. Il tema è l’attrazione irrefrenabile e contagiosa verso ciò che è dolore e morte. Fa male vedere il piacere associato al male. Ad una forma di male disgustosa. E se siamo abituati a trovare vittime e carnefici, in Tras El Cristal il carnefice diventa una sorta di modello, di maestro che viene seguito da quello che dovrebbe essere una vittima e diventa invece un carnefice ancor più spietato.
E la cosa drammatica in questo contesto è la bellezza. Già, perché un film horror così disturbante, si associa ad immagini brutali (alcune sono presenti, come la prima efferatissima scena, ma sono poche rispetto a quello che possiamo trovare in un qualsiasi film horror) e ad una regia veloce, con rumori e colori forti, estremizzati. Qui è esattamente il contrario. Le immagini sono bellissime. Esteticamente dei quadri. Tutto è lentamente pennellato con cura di ogni dettaglio. Tutto è soffuso. Accennato. La poesia è evidente. Ed è terrificante utilizzare questo linguaggio perché anche questo porta ad un conflitto mentale potentissimo, quello tra forma e contenuto.
Obbliga la nostra mente non solo ad un ruolo attivo di immaginazione, ma anche nel suo ruolo passivo di assimilazione, a difendersi da ciò che è apparentemente innocuo, affascinante, composto, bello, per l’appunto. E quindi, no, non è per tutti, ma solo per chi vuole entrare in conflitto con le proprie certezze. Per chi non ha paura di scavare nella morale e lasciarsi guidare in un territorio pericoloso dove certamente si trovano domande sull’essere umano e il suo “male radicale” le cui risposte possono essere davvero dolorose e disturbanti.
Black Pills è una rubrica che non vuole insegnare nulla. Ci sono libri, articoli, manuali che trattano biografie di artisti, film, opere d'arte in modo dettagliato ed esaustivo. Non è questo il caso. Le pillole nere sono piccoli scorci di panorami culturali e artistici a volte molto ampi che rappresentano la possibilità di approfondire tematiche che non appartengono totalmente alla cultura di massa, ma che si muovono su altri canali e altri circuiti. In un mondo dove la scelta è limitata spesso a ciò che è definito nel senso più ampio come pop, è vivamente consigliato assumere qualche pillola di colore diverso e scoprire magari qualcosa di nuovo, che in alcuni casi, come nel mio, può accompagnare per il resto della propria vita.