Kim Ki-Duk: un saluto ad un maestro

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A cura di Alice Kundalini - She Spread Sorrow

La notizia della morte di Kim Ki-Duk è arrivata in modo del tutto inaspettato l’11 Dicembre di quest’anno. Ha scosso moltissime persone, tra cui me e molti cari amici appassionati del suo cinema e della sua arte.

La sua morte è avvolta da una patina misteriosa, sembra dipinta da lui stesso, tanto appare solitaria e rarefatta. Arrivato in Lettonia il 20 Novembre per acquistare una casa in vista di un nuovo film che avrebbe dovuto girare, è letteralmente scomparso, fino al comunicato della sua morte da parte di un ospedale lettone, per complicanze da COVID. 59 anni e ancora così tanto da dire.

Regista controverso, autore sottovalutato, soprattutto nel suo Paese d’origine, la Corea del Sud. Nemo profeta in patria, ma sicuramente ha influenzato molto della generazione di registi sud coreani che dopo di lui ha cominciato con un cinema differente, amato da moltissimi, fino al noto Parasite di BongJoon-ho, vincitore dell’Oscar come miglior film nel 2019.

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In Europa il successo di Kim Ki-Duk è stato riconosciuto con diversi premi vinti dall’autore a Venezia, Berlino, Cannes che hanno consacrato alcune delle sue pellicole più belle e intense. Regista molto prolifico, ha girato in pochi anni più di 20 film, quasi sempre con budget super ridotti (a causa appunto della scarsa considerazione in Sud Corea) che però non hanno tolto potenza al suo cinema, anzi. Iper realistico, a volte durissimo, a volte di pura poesia, ti culla in storie di emarginazione, dolore, solitudine, amore, violenza, spiritualità disegnando storie profondissime che ti si appiccicano addosso per giorni, a volte per sempre.

In Europa il primo film che lo ha reso famoso è L’Isola (in realtà il quarto della sua carriera, iniziata con Il Coccodrillo 4 anni prima), presentato al Festival di Venezia nel 2000. Film crudissimo, che racconta la storia carnale di una coppia in un piccolo villaggio di pescatori, dove gli ami da pesca diventano simbolo del loro legame, infilzandosi ovunque, dalla bocca agli organi genitali, in una rappresentazione dolorosa e coinvolgente che contraddistingue moltissime delle sue pellicole.

Altro celeberrimo capolavoro è Primavera, estate, autunno, inverno…E ancora primavera del 2003. Una poesia per l’anima e gli occhi, un film spirituale sulla ciclicità della vita, che ruota intorno all’esistenza di un bambino, poi ragazzo, poi uomo, che diventa monaco buddhista e che a sua volta accudisce un bambino, a simboleggiare un eterno ritorno di ciò che è stato, è e sarà.

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L’anno successivo è quello di Ferro 3, Leone d’argento a Venezia, ad oggi considerato da molti l’apice della sua carriera. Una storia di solitudine, isolamento, violenza, invisibilità e amore, che commuove e tocca delle corde sottili dell’animo umano, corde che, almeno per me, risiedono talmente in profondità da lasciare un segno definitivo e indelebile. Nello stesso anno, anche La Samaritana, che vince l’Orso d’argento a Berlino, una storia dolorosa, di prostituzione, amore e povertà estremamente toccante.

Da qui una lunga crisi esistenziale, che lo porta ad isolarsi per un lungo periodo, nel quale gira Arigang (vincitore del premio Un CertainRegard al Festival di Cannes del 2011), una sorta di docufilm biografico proprio sul periodo di isolamento che stava attraversando, in cui condivide con una sincerità sconvolgente il suo profondo disagio e dolore.

Questa crisi non è la fine della sua arte: ritorna, seppur incredibilmente cambiato, anche fisicamente, nel 2012 con un ennesimo capolavoro: Pietà. Ispirato proprio dalla Pietà di Michelangelo, che lo colpisce moltissimo in una sua visita al Vaticano, tesse la storia di un ragazzo ritratto del male, che recupera soldi per un usuraio con metodi disumani e raccapriccianti, fino a quando la madre che lo aveva abbandonato da piccolo ritorna e lo redime, per poi arrivare ad un epilogo straziante e incredibilmente intenso. Con questo film vince il Leone d’oro e alla conferenza stampa, dove appare davvero irriconoscibile, invecchiato, con i piedi consumati come se camminasse scalzo da una vita intera, non dice nulla, ma canta Arigang, che è una canzone tradizionale coreana, che dà il nome al suo film della crisi e che compare anche in una scena di Primavera, estate, autunno, inverno…E ancora primavera…scena che rivede nel docufilm citato, in un lunghissimo piano sequenza che lo porta a piangere in modo talmente sincero, che trascende il cinema, andando nella dimensione dell’umano, regalandoci qualcosa di se stesso, di vero, autentico, unico. E con questo lungo canto è come se ci riportasse a quella scena, condividendo con noi, attraverso quel gesto, la sua rinascita.

Una vita travagliata, intensa, come un’opera d’arte delle sue, una vita che seppur breve sembra composta da più vite, dall’arruolamento nell’esercito in gioventù (esperienza che risulta centrale anchenel suo cinema, per esempio in Il prigioniero coreanodel 2016), per poi scegliere di seguire la sua creatività, andando a studiare a Parigi, dal triste coinvolgimento nel #metoo, accusato da un’attrice seppur senza prove, ai successi dei festival. Una vita difficile che lo vede spesso emarginato e in conflitto, sia con la società che lo circonda, di cui tesse ritratti spietati, come in Human, Space, Time And Human del 2018, sia con se stesso.

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Lascio ad ognuno la voglia di approfondire alcune o tutte le sue pellicole, sono davvero numerose e variegate per poter essere riportate in una pillola come questa, che vuole essere più un saluto, a qualcuno che mi ha regalato e mi regala emozioni incredibili, che mi ha fatto piangere spesso e ancor di più riflettere e interrogare, un uomo che con la sua vita e la sua arte ha raccontato il dolore di molti, non solo personaggi, ma persone, come lui, come me, come tanti, che anche solo per un momento si sono sentite fuori dal mondo, dalla società, soli, invisibili, ma anche forti, vivi, unici. Ci mancherai davvero tanto.

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Black Pills è una rubrica che non vuole insegnare nulla. Ci sono libri, articoli, manuali che trattano biografie di artisti, film, opere d'arte in modo dettagliato ed esaustivo. Non è questo il caso. Le pillole nere sono piccoli scorci di panorami culturali e artistici a volte molto ampi che rappresentano la possibilità di approfondire tematiche che non appartengono totalmente alla cultura di massa, ma che si muovono su altri canali e altri circuiti. In un mondo dove la scelta è limitata spesso a ciò che è definito nel senso più ampio come pop, è vivamente consigliato assumere qualche pillola di colore diverso e scoprire magari qualcosa di nuovo, che in alcuni casi, come nel mio, può accompagnare per il resto della propria vita.

 
Marco Mandrino